L'emergenza Covid ha riacceso i riflettori su chi lavora nell'agricoltura italiana. Senza diritti, senza cittadinanza, sotto la minaccia dei caporali. Anche a rischio della propria vita
di Marco Omizzolo
Il governo italiano evoca liturgicamente, attraverso i suoi provvedimenti, un'immediata rinascita, rilancio e svolta del Paese dopo gli effetti drammatici, sotto il profilo sanitario, economico e sociale, del Covid-19. Dichiarazioni che derivano dai gorghi pericolosi di una retorica che continua a non considerare, per convenienza e nonostante l'emersione prevista per i lavoratori immigrati privi di permesso di soggiorno, una parte fondamentale del Paese. Quella parte, solo apparentemente invisibile, che non può permettersi di “rinascere” perchè schiacciata da interessi e poteri criminali oltre che da norme e procedure che la obbligano a vivere dentro le linee di faglia del vivere civile, tra povertà, sfruttamento ed emarginazione endemiche. Mentre, infatti, il Paese, durante la fase 1 della pandemia, si fermava, alcune sue filiere produttive continuavano a restare attive e i relativi lavoratori e lavoratrici impiegati alle stesse condizioni di sempre.
Si trattava soprattutto di braccianti, italiani e migranti, da sempre protagonisti dell'Italia dei sommersi e degli esclusi. Donne e uomini che hanno continuato a lavorare con la schiena curva, senza diritti, sotto gli ordini del padrone e del caporale di turno per un sistema produttivo che presenta tratti ormai così compromessi da non prevedere la possibilità di rinascere ma solo quella di agire in continuità con il passato. Rinasce, credo, chi ha espiato una pena, scontato un supplizio, superato definitivamente una fase tragica e fatto esperienza della stessa. La rinascita prevede un pensiero riflessivo e critico capace di conversione. Altrimenti è resurrezione di ciò che già esisteva.
L'Italia del Covid ha vissuto una fase certamente drammatica, peraltro ancora in corso, e piena di contraddizioni. E nonostante i morti, le inchieste e le sofferenze patite dalla cittadinanza, il Paese e la sua classe dirigente non sembrano avere fatto ancora esperienza e tratto conclusioni chiare da essa. La smania di ricominciare è evocata, pare, al solo scopo di continuare a produrre e a lavorare secondo tradizione, a discapito ancora della democrazia, della giustizia, dell'ambiente e dei diritti comuni.
«Donne e uomini hanno continuato a lavorare con la schiena curva, senza diritti, sotto gli ordini del padrone e del caporale di turno»
Proprio i braccianti, di ogni nazionalità, ad esempio, sono stati ringraziati dal presidente Conte sulle reti nazionali perché durante la pandemia hanno continuato a lavorare a rischio della loro salute, garantendo gli ortaggi e la frutta che gli italiani durante la fase 1 hanno potuto comprare nei grandi supermercati urbani. Nulla di più ipocrita. Quei lavoratori e lavoratrici non potevano fare altrimenti, essendo da anni sotto ricatto di caporali e padroni. Lavorare alle condizioni imposte o vivere nella povertà e a costante rischio espulsione: queste sono le alternative nell'Italia della “rinascita”, dei decreti “Sicurezza” ancora in vigore, delle agromafie che sviluppano ogni anni circa 25 miliardi di euro l'anno, dei padroni e dei padrini, degli speculatori dell'agrobusiness e dell'indifferenza. I braccianti in Calabria, Puglia, Basilicata, Sicilia, Lazio, Toscana, Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte, Veneto e via discorrendo, hanno continuato a lavorare, sfruttati e sotto ricatto, per gli interessi di una filiera agroalimentare governata, ieri e oggi, da criminali vari, in alcuni casi mafiosi, da padroni che durante il coronavirus hanno aumentato i loro profitti e ingrandito il perimetro dei loro affari. I braccianti non hanno prodotto per il popolo italiano. Hanno lavorato sotto il comando di migliaia di padroni italiani, continuando a guadagnare un salario che variava tra i 500 e gli 800 euro al mese per dieci o quattordici ore di lavoro quotidiano.
«Se vuoi lavorare devi rispettare gli ordini del padrone. L'azienda è la sua e lui comanda, lui ti paga, lui ti assume. Lui è come Dio. E noi siamo come schiavi»
Per gli esclusi, emarginati e scartati della società, la millantata rinascita e il proclamato rilancio governativo è motivo di grande preoccupazione per il possibile aumento dello sfruttamento e delle umiliazioni quotidiane. Deep è un bracciante indiano di circa 35 anni che da quindici lavora sotto padrone nelle campagne pontine. Da circa dieci anni, ogni mese, si vede accreditare sul suo conto corrente circa 800 euro. Lavora però tredici ore al giorno, sabato e domenica compresi. Gli domando cosa significhi, per lui, coronavirus e rilancio. Mi risponde dopo qualche secondo. Abbassa gli occhi, sorridi appena e mi invita ad osservare con attenzione ciò che si trova ai bordi delle abitazioni che compongono il residence “Bella Farnia Mare”, sulla via Litoranea, direzione Sabaudia, a pochi chilometri dal meraviglioso mare del Parco nazionale del Circeo, dove abita con la moglie e due bambine. Mi fa notare una serie di blister ormai aperti ed esauriti gettati in terra. “Ogni pasticca presa è un bracciante indiano sfruttato”, mi dice con voce calma e tono confidenziale. “Qui funziona così. Io l'ho capito appena sono arrivato dall'India. Se vuoi lavorare devi rispettare gli ordini del padrone. L'azienda è la sua e lui comanda, lui ti paga, lui ti assume. Lui è come Dio. E noi siamo come schiavi. Per lavorare con la schiena piegata a raccogliere i ravanelli, le patate, le cipolle o in estate i cocomeri anche per dodici ore al giorno, devi prendere quelle pasticche. Se vuoi è così, altrimenti il padrone ti dice di andare a lavorare in qualche altra azienda. Ma tutte lavorano nello stesso modo e dunque restiamo da lui e lavoriamo in silenzio prendendo quelle pasticche dalle confezioni che vedi in terra che alcuni assumono insieme al whisky o al vino. Questo significa per me rilancio. Significa che il padrone ci sfrutterà di più perché vuole più soldi. Noi durante il coronavirus abbiamo continuato a lavorare. Tutte le aziende, a Latina, tranne quelle zootecniche, hanno continuato a raccogliere e a vendere frutta e verdura. I padroni sono diventati più ricchi mentre per noi non è cambiato nulla. Sfruttati eravamo prima e sfruttati siamo ora”. Doparsi per reggere lo sfruttamento, anche durante il coronavirus. Forse, anzi, anche di più. Ma come fa un Paese a rinascere conservando questo stato di cose? Come è possibile immaginare che queste condizioni di sfruttamento, propedeutiche alla filiera del profitto criminale, non abbiano conseguenze sulla qualità e il funzionamento della nostra democrazia?
Lo sfruttamento e il caporalato sono una straordinaria macchina di denaro ma anche di costruzione e gestione del consenso. I padroni e i loro collaboratori vendono il consenso sociale di cui dispongono, traducendolo in voti sonanti, a quei politici che meglio e di più investono in questo sistema, garantendogli coperture e finanziamenti. Si definiscono produttori di lavoro e di economia, sono invece truffatori e sfruttatori. Deep lo sa e lo afferma chiaramente. Per lui la pandemia è lo sfruttamento, e l'unico vaccino possibile è quello che gli garantisce libertà, rispetto, giustizia. Il resto è retorica usata per costruire, anche in questo caso, consenso per chi è al potere.
«Gill è stato prima cacciato, e per dargli una lezione, visto che pretendeva anche i soldi per le giornate lavorate e non retribuite, investito con il furgone e colpito ripetutamente con una mazza da baseball»
Gill è invece un ragazzo di trent’anni, indiano anche lui. Vive e lavora nelle campagne di Terracina, nel Sud Pontino, e in piena emergenza coronavirus, dopo aver ascoltato i messaggi audio e video su come lavorare in sicurezza durante la pandemia che ogni giorno il centro studi Tempi Moderni diffondeva mediante social attraverso alcuni suoi mediatori indiani, ha deciso di domandare al suo padrone italiano la mascherina con la quale raccogliere gli ortaggi nella sua azienda. Anche questa è insubordinazione per il Paese dei padroni che oggi vuole rinascere e rilanciarsi a livello nazionale e internazionale. Gill è stato prima cacciato, e per dargli una lezione, visto che pretendeva anche i soldi per le giornate lavorate e non retribuite, investito con il furgone e colpito ripetutamente con una mazza da baseball fino a rompergli il braccio e a procurargli importanti ferite alla testa. Tutto ovviamente accertato dai medici dell'ospedale di Terracina nel quale è stato ricoverato dopo aver trovato la forza di chiamare i Carabinieri dal fossato in cui era stato gettato.
Le forze dell'ordine, su invito della Procura, eseguono due misure cautelari nei riguardi dei due aggressori. Poi il G.I.P. decide di revocare le misure cautelari ai padroni, salvo ovviamente proseguire con il relativo iter procedurale che prevede lo svolgimento di un regolare processo. Incontro Gill una domenica mattina. Lo vedo arrivare in bicicletta. Si ferma a qualche metro da me per avvicinarsi a piedi, claudicante. Cammina trascinando una gamba, muove con fatica il braccio sinistro sul quale mi mostra i circa venti punti di sutura e la placca di metallo che conserva ancora all'interno, insieme a tutti i relativi referti medici. Ha occhi ancora spaventati. Mi confida di non avere nessuno con cui parlare, di cui fidarsi completamente, e di non sapere come fare ad andare avanti. Anche dei capi della comunità indiana non si fida. Troppo egocentrismo e desiderio di potenza. Lo avverte chiaramente e cerca di stare lontano dalle loro manipolazioni. Davanti a me ho, ancora una volta, un bracciante gravemente sfruttato da un sistema che fonda la sua potenza sull'ingiustizia e sull'omertà. A Joban è andata anche peggio. Il 07 giugno scorso, dopo aver ricevuto l'ennesimo rifiuto da parte del padrone italiano di regolarizzarlo, ha deciso di suicidarsi impiccandosi dentro casa. Una corda e la via di fuga dalle agromafie si è aperta. Definitivamente. È accaduto proprio dentro il residence “Bella Farnia Mare”, lo stesso di Deep e dei blister buttati in giro. Secondo alcuni testimoni in realtà il padrone gli avrebbe chiesto di pagare circa 7mila euro per essere regolarizzato. L'ennesima truffa che avrebbe dovuto pagare senza fiatare. Anche in questo caso, prendere o lasciare. E Joban ha deciso di lasciare andare, lasciarsi andare, Per sempre.
In molta parte delle campagne italiane, se sei sfruttato, bracciante, straniero, sopravvivi solo se taci e accetti gli ordini e le condizioni imposte. Chi parla e si ribella, in qualche modo, deve essere invece messo a tacere. Con una mazza da baseball quando è facile, con aggressioni verbali o intimidazioni mediatiche quando invece l'operazione di “riequlibrio” del sistema o di “rilancio” risulta un po' più complicato. L'ex sindaco di Terracina, Nicola Procaccini, ora europarlamentare per Fratelli d'Italia, un passato nel Movimento Sociale e da ex compagno dell'On. Meloni, figlio della Senatrice di Forza Italia, Burani Procaccini, non perde un attimo e dopo l'atto del G.I.P. che ritira l'ordinanza di custodia cautelare dei padroni di Gill, dichiara, come quasi un sovrano d'altri tempi, l'innocenza degli stessi padroni, la colpevolezza del bracciante indiano fondata sulle falsità che egli avrebbe raccontato per un ancora non chiarito vantaggio personale, e chiede infine al sottoscritto di domandare pubblicamente scusa per aver offeso il territorio e il mondo imprenditoriale locale che invece, generalizzando come sempre si fa in questi casi, meriterebbe sostegno e applausi incondizionati.
«La rinascita non può partire se non si riparte dagli ultimi, dagli sfruttati, dai sommersi e dai dannati»
Storie di ordinario sfruttamento nel Paese del pre e post Covid. Rinascere in queste condizioni significa solo ripetere un eterno passato per costruire un futuro uguale a questo presente. Eppure il Paese, per bocca della sua classe politica, dichiara di volersi rimettersi in cammino lungo il sentiero della rinascita e del rilancio. Esso, in realtà, o almeno una sua parte, viaggia speditamente a destra, sul ciglio di una strada che permette ad alcuni di dominare e obbliga invece altri a subire, in silenzio. Altrimenti sono botte o morte. Gill mi resta davanti mentre passano in mete queste considerazioni. Alla fine del nostro incontro mi chiede, legittimamente, aiuto. La pandemia non gli fa paura quanto il padrone e la disoccupazione che rischia di farlo precipitare in uno stato di povertà e illegalità perenne. La regolarizzazione non lo riguarda. Ha già un permesso di soggiorno e un contratto di lavoro. Eppure è stato sfruttato, massacrato di botte e buttato in un fosso come una scarpa rotta. Peraltro ora per lui è difficile trovare un nuovo lavoro e soprattutto lavorare con l'intensità passata, considerando quel braccio e quella gamba. Mi mostra le escoriazioni che ha ancora sulla schiena e a bassa voce chiede “un po' di giustizia”. È seguito da un avvocato di Terracina che gli è stato presentato da un suo amico indiano. La pandemia è poca cosa per Gill e la rinascita per lui è una parola che può coniugare solo con il termine giustizia. Rinascita senza giustizia per Gill, Joban, Deep e tanti come loro significa andare a lavorare per un altro padrone alle stesse condizioni del precedente. Rinascita e giustizia significa invece rompere definitivamente le catene dello sfruttamento e del razzismo per diventare, in questa Italia pre e post pandemia, definitivamente liberi.
Il Paese, in definitiva, se non trova e imbocca con decisione rinnovata e forse sconosciuta la strada della giustizia, può solo guardarsi gattopardescamente allo specchio, intento ad operazioni di sterile maquillage. La polvere rischia di accumularsi sotto il tappeto, come le migliaia di storie di uomini e donne, spesso stranieri, che vedono ogni giorno violati i loro diritti fondamentali. La rinascita non può partire se non si riparte dagli ultimi, dagli sfruttati, dai sommersi e dai dannati, da chi da anni vive sotto padrone, nel silenzio di tanti, dentro un ingranaggio che li considera oggetti e non persone, braccia e non vite. La retorica della rinascita è una speranza che nasce tradita, ipocrita in sé, quando invece abbiamo bisogno di dare certezza al diritto, speranza e cammino alle donne e agli uomini che da anni conoscono solo il volto più brutale del nostro Paese. Ricomciare a dare giustizia agli sfruttati o proseguire come sempre a tutela dei padroni. Questa è la scelta da fare prima di ogni rinascita.
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