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La campagna si ferma, la lotta continua. Grazie, Bernie

di Francesco Foti

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«Capisco che molte persone, a questa convention e nel Paese, siano deluse per il risultato finale di queste primarie. Penso si possa dire che sono il più deluso di tutti. Ma a tutti i nostri supporter – qui e in tutti gli Stati Uniti – voglio dire che spero siate estremamente orgogliosi del risultato storico che abbiamo ottenuto. 

Insieme, amici miei, abbiamo cominciato una rivoluzione politica per trasformare l’America, e la rivoluzione – la nostra rivoluzione – continua. Le elezioni vanno e vengono. Ma la lotta del popolo per creare un governo che rappresenti tutti noi e non solo l’un per cento – un governo basato su princìpi di giustizia economica, sociale, razziale ed ambientale –, quella lotta continua.
E non vedo l’ora di essere parte di quella lotta con voi.
» 

 

Così si rivolgeva Bernie Sanders ai suoi delegati nel corso della convention nazionale democratica che nel 2016 lanciò Hillary Clinton alle presidenziali che si sarebbero tenute quell’anno. 

La campagna del 2016 sanciva la nascita del movimento Our Revolution, lo strumento tramite il quale Sanders e i suoi molti sostenitori portano avanti da ormai oltre quattro anni la loro sfida all’establishment politico ed economico degli Stati Uniti. 

In questi quattro anni è innegabile il successo del movimento generato dal senatore del Vermont.

Certo, il risultato di queste primarie è stato al di sotto delle aspettative, anche per chi già da principio sapeva che le chance di vittoria non erano altissime. Se però mi è concessa una provocazione, in un certo senso si potrebbe dire che parte di questo insuccesso è dovuto proprio agli ottimi risultati ottenuti in una sfida più grande, quella per la reintroduzione di un pensiero socialdemocratico negli USA.

 

Mi spiego meglio.

È innegabile che Sanders non sia stato in grado di catalizzare attorno a sé e al proprio nome le forze che in molti si aspettavano dopo l’enorme risultato del 2016. Ci sono stati degli errori nella sua strategia, nella sua campagna, nel suo messaggio? Probabilmente sì, chi non ne fa? Ma è altrettanto vero che il sostegno alle idee cui lui per primo ha dato rappresentanza - spesso in perfetta solitudine - non è mai stato così largo e condiviso. 

 

Quattro anni fa Sanders ottenne 13 milioni di voti alle primarie democratiche grazie a un’ottima campagna, ma anche in virtù del fatto che era l’unico candidato a rappresentare gli ideali di uguaglianza e giustizia sociale, economica, razziale e climatica. 

Questa volta, chi più chi meno, quasi la maggioranza dei candidati in campo era di ispirazione progressista. Fossero più o meno sinceri nelle loro proposte, nomi come Corey Booker, Kamala Harris,  Julian Castro, Tulsi Gabbard, Andrew Yang, Kirsten Gillibrand, solo per citare i più noti, si auto-collocavano nel campo progressista e non in quello moderato. Sostenevano quasi tutti il college gratuito, un forte intervento sui debiti di studio, la legalizzazione della cannabis, l’introduzione si un sistema sanitario universalistico, l’aumento delle tasse ai redditi più alti, l’aumento del salario minimo a 15 dollari l’ora, il Green New Deal di Alexandria Ocasio-Cortez. Tutte battaglie storiche di Bernie Sanders, che fino a qualche anno fa erano considerate di nicchia, marginali. Tutte battaglie che prima o dopo sono state poste al centro dei dibattiti tra i candidati, al centro del discorso pubblico. Questo solo pochi anni fa era inimmaginabile.

 

Senza considerare il risultato non certo ininfluente di Elizabeth Warren, che è rimasta in campo molto  - forse troppo - a lungo, che ha conteso molti voti a Sanders a partire da una piattaforma quasi interamente sovrapponibile alla sua, tanto che è di fatto la “terza classificata” di questa corsa. 

 

Può sembrare il tentativo di trovare per forza lati positiva in una cocente sconfitta, ma sarebbe molto superficiale dimenticare che un risultato del genere non si verificava per lo meno da decenni, nelle primarie democratiche. 

 

E sarebbe superficiale non considerare quanto lo stesso Sanders ha ribadito più volte in questi anni, e diverse volte anche nel suo ultimo libro-manifesto, “La sfida più grande”, che ho avuto il piacere e l’onore di tradurre per People.

 

«Rivoluzione politica significa pensare in grande. Non si tratta di una tornata elettorale, di un candidato, di una questione. Si tratta di creare un movimento che trasformi la vita economica, politica, sociale e ambientale del nostro Paese. Non è facile, ma è quello che c’è bisogno di fare.»

 

Il libro, che vi invito a leggere, racconta gli enormi passi avanti fatti dalla sua rivoluzione negli scorsi anni, e tratteggia un road-map molto precisa per gli anni a venire. Che sia Bernie o qualcun altro a guidare la lotta, da oggi in poi, poco importa. Lo sforzo attuato in questi anni per la costruzione di una nuova classe dirigente non è certo stato vano, ci sono molti nomi in campo che potrebbero raccogliere il suo testimone, non ultima Alexandria Ocasio-Cortez. E lo stesso Sanders ha ancora molto da dare, e ha mostrato anche in questa tornata di essere tutt’altro che sul viale del tramonto. La sua energia e il suo impegno saranno preziosi nei prossimi mesi, per dare una qualche chance al Partito Democratica di sfidare Trump in maniera credibile e di farlo costruendo un paese migliore per i moltissimi americani che usciranno ancora più deboli e fragili dalla crisi del coronavirus.

 

Il Newyorker ha recentemente detto che "la realtà ha fatto endorsement per Bernie Sanders". Lo stesso, purtroppo, non si può dire per la maggior parte degli elettori. Ma le sue idee, le sue ricette per rispondere alla realtà di cui sopra, restano le più valide e sono sempre più popolari. Se questo è quello che ha costruito in quattro anni il suo movimento, chissà cosa potrà combinare in otto, magari con un nuovo nome alla guida.

Io sono molto curioso di scoprirlo, e voi?

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