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La strada verso una società più giusta passa dal Nevada

di Francesco Foti

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Un’altra notte di grandi soddisfazioni elettorali per Bernie Sanders, che ha vinto le primarie del Nevada e sembra (i risultati sono ancora parziali) lo farà con una maggioranza schiacciante. È una vittoria particolarmente significativa, a mio avviso, e che pone basi promettenti tanto per aggiudicarsi la vittoria in queste primarie quanto quella nelle presidenziali del prossimo novembre. Solo nei prossimi giorni, infatti, avremo a disposizione tutte le informazioni sull’andamento del voto nello desertico stato dell’ovest, e probabilmente dovremo aspettare il primo “Super Tuesday” del 3 marzo - con il voto in Alabama, Arkansas, California, Colorado, Maine, Massachusetts, Minnesota, North Carolina, Oklahoma, Tennessee, Texas, Utah, Vermont e Virginia - per avere un quadro realmente preciso delle forze di ciascun candidato, ma ciò non toglie che i primi segnali arrivati da Las Vegas e dintorni siano molto promettenti per il senatore del Vermont. Li riassumo brevemente in tre punti.

 

NON IO, NOI

Sin dalla campagna del 2016, Sanders ha puntato tutto sulla creazione di un vasto movimento popolare, fatto di attivisti di ogni età, provenienza e estrazione sociale. Questo gli ha permesso di ottenere 13 milioni di voti partendo da outsider quattro anni fa, ma soprattutto gli ha permesso di continuare a far crescere la struttura che lo sostiene, che non si è mai smobilitata e che anzi ha continuato a lavorare permanentemente dal 2016 a oggi. Il Nevada lo dimostra. Sanders ha dalla sua una delle più grosse campagne dal basso mai vista nella storia degli Stati Uniti. Il Nevada è uno stato in cui è storicamente difficile creare una classica campagna “porta a porta” e dove in pochi riescono a mettere in campo gli stuoli di volontari che normalmente si vedono negli stati costieri più tradizionalmente attivi politicamente. L’elettorato del Nevada, poi, è considerato “poco attento”, non particolarmente politicizzato e non particolarmente legato alle dinamiche interne al Partito Democratico. 

 

In questo quadro, non può non impressionare la campagna di Bernie, che ha bussato nelle scorse settimane alle porte di mezzo milione di case in tutto lo stato, permettendo al senatore del Vermont di arrivare direttamente nelle case di milioni di elettori. 

Mentre scriviamo, i volontari con le magliette #Bernie2020 hanno già raggiunto un milione di case in California, e lo stesso obiettivo contano di raggiungere in Texas e negli stati chiave del Super Tuesday che si terrà tra una decina di giorni.

Né Buttigieg, né Biden, né tantomeno Bloomberg hanno qualcosa di anche solo lontanamente simile.

Chi ce l’ha? Paradossalmente, Trump.
Un elemento che forse dovrebbero tenere in considerazione, i molti che (negli Stati Uniti come a casa nostra) si stracciano già le vesti sostenendo che Sanders non abbia chance contro il miliardario newyorchese di destra (parliamo del Presidente, non di Bloomberg, anche se è facile confondersi). Bernie potrebbe avere molte più chance dei suoi contendenti, contro Trump, che infatti gli dedica un’attenzione social che tradisce, secondo me, una certa preoccupazione.

 

IL VOTO DELLE “MINORANZE”, IL VOTO DEI LAVORATORI

I detrattori di Sanders lo accusano tipicamente di essere un candidato che ha appeal solo presso l’elettorato bianco di giovane età, di sesso maschile e di reddito medio-alto. I cosiddetti “Bernie Bros”. Lasciando per il momento da parte i sondaggi, di cui parleremo dopo, il dato del Nevada sembra smentire questa caratterizzazione. Certo, è vero che tra gli elettori sotto i 30 anni Bernie è il candidato di gran lunga più popolare, staccando di ben 13 punti Elizabeth Warren che si trova in seconda posizione - alla faccia dei giornali italiani che hanno dipinto Buttigieg come “il candidato che piace ai giovani”.

Ciò che non è affatto vero, però, è che Bernie non sia in grado di attirare il voto delle minoranze. Lo dimostrano i sondaggi, che vedono Sanders come il candidato preferito tanto dagli ispanici (41%), dagli afroamericani (31%) e dagli asiatici (29%). Piace invece “solo” al 24% dei bianchi, percentuale comunque sufficiente a dargli la maggioranza relativa. 

I primi dati giunti dal Nevada sembrano confermare questa tendenza: Sanders risulta primo in tutti i gruppi etnici, in particolare mostra una larghissima preferenza da parte dell’elettorato più giovane (65%) e ispanico (51%).

Sembrano essere poco sostanziate anche le accuse di impopolarità presso le donne mosse verso Sanders da una certa stampa. In Nevada il 30% delle donne ha votato Sanders, molto più del 17% di Biden o del 15% di Buttigieg.

Gli Stati Uniti sono un paese sempre meno wasp e sempre più variegato dal punto di vista culturale, sociale ed etnico. Il candidato che ha migliori chance di successo presso gli elettori che rappresentano l’America di oggi sembra senza grande ombra di dubbio Sanders.

 

Un secondo elemento di interesse, nel voto del Nevada, arriva dal mondo del lavoro, e dei sindacati.

I giorni che hanno preceduto questo appuntamento elettorale sono stati caratterizzati da fortissime polemiche tra la base di Sanders e i sindacati del Nevada.

In particolare, il sindacato dei lavoratori della ristorazione si era espresso con grande veemenza contro Sanders, sostenendo che il suo piano per un sistema sanitario universale e pubblico (il cosiddetto Medicare For All) avrebbe messo a repentaglio i benefit sanitari previsti dai contratti di categoria di quei lavoratori. Ne era nata un’accesissima polemica, specialmente sui social, non con Sanders o con sui rappresentanti ufficiali, ma con un settore della base, che aveva attaccato pesantemente i vertici sindacali del Nevada, accusandoli di scarsa vicinanza ai bisogni dei propri lavoratori, e di contiguità troppo forte con l’establishment politico ed economico. Sanders aveva cercato di calmare le acque, arrivando a disconoscere quanti tra i suoi supporter hanno attaccato i sindacati.

I lavoratori del Nevada, però, non si sono lasciati influenzare né dai diktat dei loro vertici, né dalle polemiche mediatiche, e hanno votato in larga parte per Sanders, arrivando a dargli maggioranza bulgare tra i caucus tenutisi tra i lavoratori dei principali hotel e ristoranti di Las Vegas.

Un segnale particolarmente importante, perché il sostegno della working class è ciò che è in parte mancato a Hillary Clinton in alcuni stati chiave, quattro anni fa, e perché si tratta di un elettorato molto poco politicizzato e coinvolto. Il fatto che abbia scelto in larga maggioranza Sanders, recandosi in buon numero ai caucus, è un segnale molto positivo non solo nella lotta per la nomination democratica, ma anche per le elezioni generali di novembre. 

 

Solo chi saprà mobilitare tanto le cosiddette minoranze quanto i lavoratori, solo chi porterà anche i giovani (i grandi assenti del 2016) alle urne, avrà chance di battere Trump. Bernie sembra il candidato più promettente, da questo punto di vista, ben lontano dal beniamino dei radical chic che spesso ci descrivono.

 

SI VINCE AL CENTRO, BERNIE È UN CANDIDATO VELLEITARIO

Dopo l’Iowa, il New Hampshire e il Nevada, il quadro non è cambiato poi molto, per chi seguiva con attenzione la corsa per la nomination democratica. Sanders resta il favorito, ad esempio, per il guru dei sondaggi Nate Silver, che sul suo sito FiveThirtyEight dà Sanders largamente in vantaggio, con il 39% delle chance di vittoria contro il misero 9% di Bloomberg, secondo classificato al momento.

 

Tutto questo potrebbe cambiare dopo il Super Tuesday del 3 marzo? Forse, ma non è probabilissimo. 

 

È difficile giudicare il potenziale reale di Bloomberg. I suoi risultati nei sondaggi, che lo danno in forte crescita, sono molto legati alla sovraesposizione mediatica di cui gode da settimane. E non sono dati particolarmente interessanti, se ben li si guarda. Come già scritto, non è il candidato favorito in nessuno dei gruppi sociali se non tra quello dei molto benestanti, dove se la gioca con Buttigieg, molto gradito dalle élite ora che il declino di Biden sembra irrimediabile. L’ex sindaco di New York ha mostrato tutti i suoi punti deboli durante il dibattito tenutosi questa settimana tra i candidati alle primarie, il primo per lui. È apparso alquanto bolso e poco convincente, un oratore che in pochi definirebbero brillante. Soprattutto, ha mostrato di essere pieno di punti deboli, a partire dal suo passato (?) repubblicano, dal suo convinto sostegno a Bush e alla guerra in Irak, dalle sue dichiarazioni incendiarie del passato sul welfare, sulle donne, sugli afroamericani, dalle sue stesse politiche da sindaco, in particolare il famigerato “stop and frisk”, un provvedimento accusato dai più di razzismo e di incoraggiare la brutalità da parte della polizia verso le minoranze. La sua unica arma sembra essere il suo patrimonio da oltre 60 miliardi di dollari e la fascinazione che questo esercita presso i media mainstream, che gli dedicano uno spazio del tutto sproporzionato a quella che è fino ad ora la sua performance come candidato. Il 3 marzo sarà il suo primo test, e stando ai pur lusinghieri sondaggi del momento, non gli permetterà probabilmente di ottenere nemmeno il secondo posto nella corsa. 

 

Con la grande confusione che regna nello spazio centrista, è ancora difficile capire chi tra Bloomberg, Buttigieg e Biden sarà conquistare il supporto dell’establishment democratico. L’unica certezza, al momento, è il favore di cui gode Sanders presso tutti gli altri gruppi sociali. 

Quanto all’eleggibilità del senatore del Vermont, i sondaggi di un possibile scontro con Trump vedono sostanzialmente le stesse chance per lui, per Biden e per Bloomberg.

 

Oltre ai numeri, però, c’è la politica. L’unica proposta politica innovativa in grado di sfidare Trump, l’unica che mette in crisi il suo modello di campagna da perenne outsider che sfida l’establishment corrotto, è quella di Sanders. L’unico diverso modello di società, senza nostalgie per il passato obamiano e senza versioni annacquate delle solite politiche di destra a favore delle élite finanziarie, è quello che propone Bernie. 

 

La battaglie delle primarie democratiche americane vede sfidarsi due proposte tra loro quasi antitetiche

Da un lato c’è chi considera Trump una pericolosa anomalia all’interno di un sistema sano e perfettamente funzionante. Rimosso lui, tutto potrà finalmente tornare alla normalità. L’America è già grande, ha bisogno solo di qualche aggiustatatina. Tanto Bloomberg, quanto Biden, quanto Buttigieg sono esponenti di questa visione.

Dall’altro c’è chi, come Sanders, ritiene che Trump sia la conseguenza delle enormi contraddizioni che attraversano la società statunitense, il risultato di un patto sociale che si è rotto e che va ricostruito su altre basi, rimettendo in campo la capacità di cambiamento che i democratici hanno saputo mostrare dopo l’altra loro grande crisi, quella del ’29. Sanders propone di fatto, a quasi cento anni di distanza, una versione rinnovata e più larga del New Deal di Roosevelt. Un New Deal che stavolta tenga conto di tutte le forti disuguaglianze che vivono gli USA: quella sociale, quella razziale, quella economica, non da ultimo quella climatica.

È presto per dire se sarà sufficiente a ottenere la nomination democratica, o se sarà sufficiente a sconfiggere Trump, ma al momento è l’unica proposta che sembra mettere in campo la sfida più grande, quella verso una società più giusta. 

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