Ma tu vulive ‘a pizza
- paolocosseddu
- 25 giu 2022
- Tempo di lettura: 3 min
Nel 1966, durante la quattordicesima edizione del Festival di Napoli, si palesa una coppia insolita, composta da Aurelio Fierro e Giorgio Gaber. I due presentano una canzone destinata a diventare assai popolare: è la storia, dolce e ironica, di un innamorato che cerca in tutti i modi di conquistare la sua bella, scontrandosi però con un imprevedibile quanto insormontabile ostacolo. Il giovine si propone di regalarle, “pagandolo anche a rate”, “un brillante da quindici carati”, la porta dove ci sono i migliori ristoranti fronte mare e ordina un cefalo arrosto, e quando finalmente la sposa, tra le ali di una folla di parenti e vicini, e arriva una torta di cinque piani, niente da fare: lei vuole la pizza, la pizza, la pizza, cu ‘a pummarola ‘ncoppa.
Il senso di questa canzone, celebrazione di un piacere semplice ma talmente delizioso da superare ogni lusso, a distanza di oltre mezzo secolo va infine riscritto. Intanto, va tenuto presente che il testo è opera di un autore milanese, Alberto Testa, una sorta di smentita a posteriori di quest’assurda pretesa dei napoletani di voler vantare diritti di primogenitura sulla pizza stessa. E poi, a ben vedere, la giovine non rifiutava gli altri beni materiali attirata dalla golosità di uno dei piatti poveri per eccellenza, ma mirava invece a una pizza gourmet con pata negra o beluga. O con entrambi, massì, crepi l’avarizia. Di questi tempi, solo gli ingenui possono pensare che mangiare una pizza possa corrispondere al mero desiderio di mangiare la pizza stessa. È una mentalità da sempliciotti del tutto superata, in realtà si va a mangiare una pizza per vivere l’esperienza di frequentare un locale eccessivamente sfarzoso e caro aperto da qualche Vip, esperienza che ovviamente esiste solo nel momento in cui viene debitamente instagrammata. La pizza è secondaria, tranne che per il conto, e lo stesso dicasi per chi va a mangiarsi una bistecca da quel tizio divenuto famoso perché fa rotolare il sale giù per il gomito: quel che è importante è la supposta esclusività, insomma il costo più della costata. La cafonaggine esibita, senza vergogna, perché non conta solo fingersi ricchi, ma è fondamentale farlo da burini.
Del resto, questi sono i modelli: ganassa arricchiti di rara antipatia, viveur provincialotti per i quali la grandeur consiste nel vantare un incredibile cattivo gusto – soprattutto se parametrato alle indecenti possibilità economiche – che però hanno milioni di follower, masse di poverini attirati dal sogno impossibile di una vita di fatta di ostentazione. E se poi la pizza non è granché non importa, qualcuno lo dica ai pizzaioli indignati che proprio non hanno colto il nocciolo della questione. Ciò premesso, se questo è l’andazzo, davvero possiamo prendercela con una classe dirigente che non fa altro che adattarsi al livello di una costituency disposta a vivere pane e cipolle tutto l’anno pur di potersi fare qualche selfie mentre sboccia Cristal al Twiga? Prendete Di Maio, uno che in quattro anni ha cambiato idea su tutto, veramente su tutto, ma una cosa l’ha capita e su quella è ben fermo: che fare il Ministro è meglio che non farlo. Che viaggiare sui voli di Stato che un tempo tanto disprezzava è meglio che star stipati in economy su un low cost. Che per il proprio compleanno è meglio una costosa e buzzurra festa su una chiatta galleggiante sul Tevere della crostata comprata nella pasticceria sotto casa. Chi può dargli torto? Chi può dare torto a Renzi, che si fa pagare in petrodollari per portare la sua preziosa esperienza in giro per il mondo, ovviamente in prima classe?
Se l’obbiettivo ultimo, l’unico davvero importante, è stare a qualsiasi costo nel giro che conta, evitare con ogni mezzo di vivere un’odiosa vita normale fatta di Margherite anonime e birrette non millesimate, allora vale tutto: si può chiedere l’impeachment di Mattarella per poi diventare più istituzionali di un corazziere, si possono scrivere decreti razzisti con Salvini per poi spacciarsi per fari del progressismo, si possono prendere soldi da Putin per poi diventare pacifisti, si può governare con Brunetta per poi fingere di avere a cuore i lavoratori. Una crociera sul panfilo dell’amico imprenditore val bene una crociata contro il reddito di cittadinanza che tanto dispiace a Confindustria. E pazienza se poi chi lo percepiva non potrà più permettersi la pizza con il tartufo bianco mandolinato a pioggia: giusto così, perché se ricco vuoi apparire, un po’ devi soffrire.

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