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Che ipocrisia

I giornali hanno riportato la notizia, ma ha destato molto meno scalpore di quanto avrebbe dovuto: l’Eni ha aperto pochi giorni fa il cosiddetto “conto K” presso Gazprombank, necessario a pagare in rubli le future forniture di gas russo, “nel rispetto dell’attuale quadro sanzionatorio internazionale”, una formula che è un capolavoro di doppiopesismo.

Dopo tre mesi esatti dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, e di relativo, esacerbante dibattito, ecco quindi la prima misura che evidentemente mette d’accordo tutti, atlantisti e filorussi, in nome della vecchia tesi secondo cui “non ci sono alternative”. Novanta giorni in cui chi ha provato a sollevare qualche dubbio – e non solo sull’invio delle armi in sé, ma bensì sull’invio delle armi come unica strategia – è stato bollato come putiniano, senza far distinzioni rispetto a chi il leader russo lo sostiene per davvero. Il problema è nella dottrina, come sempre avviene nelle questioni di politica estera. Un conto, infatti, è sostenere anche militarmente un popolo invaso, altro è pensare che l’effettivo scopo finale possa addirittura essere il regime change in Russia, perché le cose non funzionano così, non sono mai così semplici, e peraltro i recenti esempi di Iraq e Afghanistan dovrebbero averlo chiarito abbondantemente. E invece.


Semplificando, inviare armi agli ucraini (con grande clamore) e continuare al tempo stesso a fare affari con i russi (nel sostanziale silenzio generale) equivale a finanziare entrambe le parti del conflitto. Così stanno le cose. E nel frattempo si additano i pacifisti, o anche solo chi espone qualche dubbio: che gigantesca ipocrisia. Dopo quarant’anni passati a prendere pernacchie perché si chiedevano investimenti nelle rinnovabili, oggi che purtroppo si dimostra plasticamente che sarebbe stato molto meglio averli fatti, tocca anche sentirsi accusare, dagli stessi poteri che li hanno ostacolati, di intelligenza col nemico, mentre con quello stesso nemico loro continuano a farci affari. Per i soliti interessi privati, mascherati per l’occasione dalla necessità di un’emergenza che hanno creato con le loro politiche miopi.


Le cose non miglioreranno, perché nel frattempo, proprio questa settimana, la “fame nel mondo” è arrivata sulla scrivania del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, normalmente riservata alle questioni di guerra. Il numero globale di persone che ogni anno muoiono di fame era diminuito un paio di anni fa, ma ha immediatamente ricominciato a crescere, tornando ai livelli precedenti e superandoli. Anche se nel ricco Occidente si potrebbe avere l’impressione che col tempo i consumi alimentari siano diventati più vari, la verità è che al contrario si sono omologati, a partire dalla standardizzazione e concentrazione in un numero relativamente piccolo di coltivazioni. Invece di diversificare le varietà e la diffusione geografica, siamo dipendenti da poche zone strategiche, e se un qualsivoglia problema – politico o climatico, specialmente in Paesi che non sono modelli di stabilità – le colpisce, le ripercussioni possono essere devastanti. In particolare, Russia e Ucraina forniscono da sole un terzo delle esportazioni mondiali di grano, un quarto dell’orzo prodotto in tutto il mondo, il 70 per cento dell’olio di girasole, e come se non bastasse la Russia è un fondamentale Paese produttore ed esportatore di fertilizzanti. Dall’inizio del conflitto, in soli tre mesi, il numero di persone malnutrite a livello globale è già cresciuto di 58 milioni, dice HungerMap.


Certo, non è solo “colpa di Putin”: già il biennio pandemico aveva messo a dura prova il modello di supply chain che ha governato fin qui la globalizzazione. Anche prima della guerra, molte aziende avevano capito, soprattutto perché si sono trovate in difficoltà, che forse non si sarebbe più potuta basare la produzione mondiale su navi cargo che vanno avanti e indietro per il globo, che le materie prime e le rispettive lavorazioni è meglio che siano un po’ più vicine, perché alla fine non si sa mai, gli imprevisti capitano. E infatti sono capitati, a dire il vero capitano sempre, anche quando non sono oggetto dei nostri talk serali: limitatamente all’ultimo periodo, la siccità in Africa settentrionale e orientale, i conflitti in Etiopia, Yemen e Somalia, e il caldo anomalo in India avevano già contribuito a invertire la tendenza nella lotta alla fame globale.


E chi le diceva già da prima, tutte queste cose? Gli ambientalisti, i critici di uno sviluppismo senza freni, e i pacifisti di cui sopra. Accusati sistematicamente di non capire, nella migliore delle ipotesi, o addirittura di fraternizzare col nemico, come è accaduto ultimamente. Nel frattempo, chi avrebbe davvero la possibilità di cambiare le cose insiste nel voler andare avanti “business as usual”, e poi si sorprende quando scopre che non è possibile. Che ipocrisia.

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