Martedì ricorrevano tre anni dalla morte di Rutger Hauer e ieri osservando la lunghissima seduta al Senato inevitabilmente veniva in mente il monologo del suo personaggio più celebre, l’androide in Blade Runner: cose che noi umani non potevamo immaginarci. E invece.
Come in Assassinio sull’Orient Express, in cui tutti i personaggi danno una coltellata alla vittima pensando così che quindi nessuno possa essere accusato della sua morte, ognuno ha contribuito, poco o tanto, ma attenzione perché il cadavere non è Draghi, piuttosto è il Paese. Draghi, invece, è tra quelli che si sono messi in fila per dare la sua brava stoccata, come tutti gli altri.
I commentatori erano elettrizzati, ieri, dopo averlo sentito. Ah, quanto piace alla platea l’uomo forte, quello che arriva in Aula e gliene canta quattro! E come ci restano male, quando si rendono conto delle conseguenze… Eppure finisce sempre così: se si accetta la rissa come metodo, si deve sapere che ci vuole un sacco per darle e uno per prenderle. C’è poco di cui stupirsi.
Ma Draghi, dicono i suoi supporter, è troppo bravo, troppo prestigioso per sottostare ai capricci di questa pessima classe politica. Solo che se è così è pure peggio, è il fraintendimento del secolo: non lo sapeva, quando ha accettato di guidare il Paese? Non sapeva che poche cose sono più provvisorie del consenso e dei patti di Governo? Non sapeva che i partiti hanno una loro agenda, e che conciliarle tra loro richiede più compromessi che imposizioni? Perché se non lo sapeva, se davvero è partito dall’assunto che “io sono io”, senza immaginarsi che in questo modo tutti avrebbero avuto la tentazione di dirgli “chissenefrega”, forse allora non è così fenomenale.
Non che la colpa sia esclusivamente sua, intendiamoci. L’allucinazione è stata collettiva: a partire dal consenso universale che sempre queste operazioni hanno quando nascono, ignorando il fatto che, come ci insegnano i molti precedenti anche recenti, finiscono sempre male, senza eccezioni. Sono passati 17 mesi a fingere di non vedere i limiti di un Governo non proprio all-star, raccontando che gente come Brunetta e Giorgetti era lì a rappresentare una destra di Governo e affidabile, ben diversa da quell’altra anima populista che vive nei loro partiti. Beh, si è visto ieri, l’inesistenza di questo immaginario argine, quando Salvini e Berlusconi hanno fatto risuonare il richiamo della foresta. Esclusa la Gelmini, va bene, se questa vi pare una consolazione.
E poi, i grillini: le cui rivendicazioni, a scanso di equivoci, in alcuni casi sono anche giuste, vedi la difesa del reddito di cittadinanza o il disagio per essersi ritrovati, in un provvedimento che nulla aveva a che fare, una notarella sull’inceneritore di Roma, una porcheriola proprio misera e indegna, a proposito di Governo del Migliore. C’è solo un piccolo problema, in questa difesa: la credibilità. Perché dopo un’intera legislatura in cui si sono rimangiati tutte le cose che dicevano e per le quali hanno preso i voti, tanti, è un po’ difficile tornare indietro, non ci casca nessuno.
A parte il Pd, ovviamente: ha passato gli ultimi due anni a coltivare questo famoso campo largo col M5S, e l’ultimo anno e mezzo a parlare di agenda Draghi, senza badare alla contraddizione. E dire che non è piccola: anzi, è larga una decina di punti percentuali, quelli che la destra potrebbe avere di vantaggio sul centrosinistra. Nessuno ha la più pallida idea di come colmarli, e improvvisamente manca anche il tempo per farlo.
Poi ci sarebbe il piccolo dettaglio di quel che c’è fuori dal Palazzo: anche non stimando questo esecutivo, a otto mesi dalla fine della legislatura, in barba alle questioni sul tavolo che tutti ieri hanno elencato – pandemia, guerra, inflazione, misure sociali -, salvo poi agire in senso esattamente opposto, l’idea di una crisi a luglio, con campagna elettorale estiva, dà la misura del disastro. Come finiva, quel monologo? Ah, già: «È tempo di morire».
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