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Contro la cultura dell'ego

A oltre due anni dall’uccisione di Soumaila Sacko, il bracciante e sindacalista assassinato in Calabria il 2 giugno 2018, la condizione dei migranti presenti in Italia, in particolare di quelli meno visibili e tutelati, spesso impiegati nei campi in condizioni simili alla schiavitù, non sembra essere particolarmente migliorata. All’epoca, il primo Governo Conte, quello che poi partorirà i decreti Salvini, si era insediato da sole 24 ore, e da allora, nel frattempo, la maggioranza ha cambiato colore con l’uscita di scena della Lega e l’ingresso del Partito Democratico, di Leu e di Italia Viva, e di nuovo più recentemente con un nuovo Governo di larghe intese. Dopo una lunghissima opera di sensibilizzazione portata avanti dal più vasto popolo della sinistra, i decreti dello scandalo sono stati dunque modificati, un successo salutato da alcuni che però ha sollevato più di una perplessità tra chi invece ne chiedeva l’abolizione e una netta discontinuità. Aboubakar Soumahoro, 40 anni, originario della Costa d’Avorio, in Italia dal 1999, laureato in Sociologia all’Università Federico II di Napoli, in questi stessi due anni è divenuto in qualche modo, se non simbolo, certamente voce di una mobilitazione dal basso, in cui gli sfruttati si organizzano e si rappresentano in una forma più autonoma di quanto non fosse avvenuto in precedenza. Giusto l'anno scorso, in pieno lockdown, l’emergenza sanitaria ha messo in difficoltà il settore agricolo nazionale proprio per l’impossibilità di poter usare nella raccolta le persone che normalmente popolano i flussi migratori diretti nel nostro Paese: come nel caso dei Decreti Salvini, poteva essere l’occasione per aprire – finalmente – un dibattito sulla riprogettazione della nostra società, invece di continuare a parlare dei fenomeni migratori solo in termini di sicurezza o di necessità produttive. Ma le cose, sfortunatamente, non sono andate così. A Soumahoro abbiamo chiesto, quindi, partendo proprio dalla modifica di quei decreti, non tanto di entrare nel dettaglio delle singole parti modificate, ma di fornire un giudizio complessivo sullo stato di un Paese che non riesce a fare i conti con la complessità dei mutamenti sociali già in corso.


Dopo le modifiche ai famosi decreti, siamo a discutere di giorni o mesi necessari per una pratica, o di Daspo: non è già questa una sconfitta per l’Italia, oltre che molto limitante?

Viviamo in un contesto interessato da cambiamenti profondi che interrogano le nostre certezze, sia per ragioni legate al contesto attuale, quello della sfida sanitaria, sia per ragioni più ampie legate al modello economico. Che è caratterizzato da squilibri, disuguaglianze, perdita di valori di riferimento. In questo senso ci sono specificità interessate da norme precise: quelle riguardanti i migranti, o i bambini nati e cresciuti in Italia, sono segno di una società che rispetto al tempo attuale, digitale, non riesce a stare al passo, e adotta quindi un approccio “razzializzante”. Veniamo da trent’anni di legislazione sul tema, trent’anni in cui tutto si svolge dentro questo approccio di ghettizzazione, categorizzazione, razionalizzazione istituzionalizzata. In parte si tratta di reminiscenze di una cultura materialista che ha accompagnato la fase coloniale: una cultura di superiorità mai abbastanza analizzata, specie ora che ci troviamo in un’era di riduzione e rimozione dei processi storici. Che invece vanno letti attentamente.


È condivisibile ciò che sostengono alcuni, ovvero che la società in qualche modo si stia già modellando secondo nuovi paradigmi, più velocemente di quanto non facciano le istituzioni, attraverso la semplice convivenza, a partire ad esempio dalla scuola?

Serve una visione attenta dei processi in atto quanto di quelli passati, un’analisi che vada oltre la questione dei porti chiusi o aperti. Le persone sono fatte per muoversi quanto lo sono i capitali, anche se questo in gran parte viene taciuto. Eppure è così, le persone si muovono. Il problema, piuttosto, è che mancano di empatia: stanno attaccate ai loro smartphone indifferenti a ciò che capita intorno a loro, mentre invece questi strumenti potrebbero essere usati per creare un legame, contro la cultura dell’ego.


In effetti si fa un gran parlare di “connetterele persone, ma certo non in questo senso. Faccio un esempio che conosciamo bene: Sacco e Vanzetti hanno vissuto la colpa di essere italiani, ma in realtà hanno pagato per la loro dimensione sociale, non per la loro effettiva provenienza. Allo stesso modo i bambini nati e cresciuti in Italia che sono senza cittadinanza sono come i meridionali che salgono al Nord per cercare lavoro, sono uguali. Solo attraverso la comprensione dell’altro si crea empatia: al contrario, cosa saremmo se non vivessimo la vita in una dimensione fatta di interconnessioni? L’io, se non è in relazione, cos’è? Certa politica, di questi anni ma non solo, ha cavalcato molto l’io, anche se da un punto di vista identitario. L’io di quel villaggio, di quella provincia, di quella regione, di quel Paese, sono tutte gabbie, che isolano le persone le une dalle altre. Infatti, in un contesto come quello attuale di crisi sanitaria, risulta chiaro che senza solidarietà non si salva nessuno. Questo perché l’io non va soffocato, è una dimensione essenziale, ma senza interazione non basta. La politica invece si consuma intorno a un consenso immediato, in cui manca la visione. Occorre immaginare una società capace di creare basi di unione tra soggetti che tra loro sono diversi. In questo senso, il tema della razzializzazione va interpretato oltre la stigmatizzazione e le differenze.

Un richiamo, quello a marcare le differenze, che però sembra far presa su ampie fasce sociali. Certo, qualcuno è riuscito a intercettare un consenso popolare, ma non ci si sofferma abbastanza ad analizzare quali sono i motivi profondi di quel consenso, quali sono i bisogni che lo generano. Si tende piuttosto a darne un giudizio, ma anziché giudicare bisognerebbe invece intercettare quelle persone e capirne le ragioni.




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