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Non calpestare l'erba: solo la legalizzazione ferma la repressione

È un Luca Marola comprensibilmente un po’ teso, ma che non sembra aver perso un’oncia della sua voglia di lottare, quello che si collega con noi dalla sua casa di Parma.

Quarantatré anni, una vita in prima linea nella battaglia per la legalizzazione della cannabis, fondatore prima del grow shop Canapaio Ducale, poi dell’azienda Easy Joint con cui inventa la cannabis light, Marola ha le idee molto chiare e non ha timore di condividerle con noi.

Mentre il nostro paese si avvia verso una crisi economica che si annuncia come una delle peggiori della storia recente, sono in molti a ricordare che la legalizzazione della cannabis e dei suoi derivati, oltre ad essere una conquista civile, sarebbe una grande opportunità di crescita, che potrebbe portare introiti per cifre che vanno dai 5 ai 10 miliardi di euro, a seconda delle stime, e che potrebbe impiegare migliaia di persone, peraltro strappando questo business alle grinfie della criminalità organizzata. Ragionamenti che, ancora una volta, hanno trovato poco più che una timida eco nelle istituzioni. Marola, come suo costume, si appella al Parlamento in maniera molto netta: «Basta emendamenti, basta tentativi di infilare modifiche qui e là. C’è bisogno di una revisione chiara e inequivocabile della legislazione in materia di droghe, per porre fine alle ambiguità e alle interpretazioni».

Mentre cento parlamentari scrivono a Conte perché si discuta di legalizzazione agli Stati Generali sull’economia promossi dal premier (resteranno inascoltati), mentre davanti a Montecitorio si manifesta sotto l’egida della campagna #IoColtivo per i diritti di chi coltiva modiche quantità di canapa, le procure italiane proseguono la loro guerra contro la marijuana.

La chiacchierata con Luca Marola, infatti, sarà più volte interrotta dalle telefonate dei suoi legali, che assistono il fondatore di Easy Joint nella battaglia che da diversi mesi lo vede impegnato (assieme a molte altre persone) a difendersi dall’accusa di detenzione e spaccio di stupefacenti.


Siamo alla fine di giugno, e solo una ventina di giorni fa c’è stato l’arresto di Franco Casalone, storico attivista e coltivatore, con l’accusa di detenzione di stupefacenti nel suo casale in provincia di Alessandria. A Macerata, invece, il proprietario di due negozi di cannabis light è stato condannato a quattro mesi per spaccio. Si tratta di singoli episodi, o di un’azione coordinata contro il settore della canapa industriale?

«In assenza di una legge che regolarizzi una volta per tutte l’uso della cannabis in questo paese, il potere giudiziario interviene per colmare il vuoto lasciato da quello legislativo. La 309 del 1990 è una legge vecchia di trent’anni, fatta in un’epoca in cui il mondo della canapa industriale era di fatto inesistente nel nostro paese, e quindi non distingue ciò che è coltivato e prodotto a fini industriali e ciò che è destinato all’uso ricreativo. E su questo che giocano le procure, ed è sulla base dell’articolo 73 di questa legge, che hanno arrestato e poi messo ai domiciliari Franco Casalone a Lu Monferrato, che hanno indagato me a Parma, che hanno già condannato a quattro mesi Lorenzo Castignani a Macerata. Se un procuratore si inventa l’uso ricreativo della canapa industriale - perché il punto è questo - verifica che la legge sulla canapa industriale non prevede questa tipologia, quindi non la tutela, ed essendo la dicitura “cannabis” presente solo nella legge 309 del 1990, quella legge va applicata.

Questa è la follia dell’approccio punitivo e proibizionista verso le sostanze che c’è in Italia. Non c’è alcuna ricerca di confronto con la realtà, se ne fa una questione semantica, di definizione, e basta quella a trasformare un imprenditore, un coltivatore o un negoziante, in un trafficante».


Al di là dell’interesse di chi segue da sempre le istanze dell’antiproibizionismo, non sembra esserci presso l’opinione pubblica la percezione del vero e proprio scontro in atto tra le procure e il mondo della cannabis light.

«Non solo. Neanche nel nostro settore c’è la reale percezione di quanto sta accadendo. Molti pensano, anzi, che una mia eventuale condanna significherà solo un concorrente in meno per loro sul mercato. Manca non tanto la solidarietà di gruppo, ma proprio la visione di lungo termine. Qua a Parma la procura punta a fare giurisprudenza, lo dice apertamente. Si vuole sancire che la cannabis light è uno stupefacente e come tale va trattato. Se dovessero veder accolte in tribunale le loro tesi accusatorie, dal giorno dopo partirebbero azioni simili in tutte le altre procure italiane.

La maggior parte dei miei “colleghi” non sembra capire la gravità della situazione. Questo, probabilmente, perché si tratta di un settore giovane, in cui – una volta che io ho aperto la strada – si sono buttati quasi esclusivamente imprenditori che venivano dal mondo delle capsule compatibili Nespresso, delle sigarette elettroniche e delle slot machine. Persone che hanno fiutato il business e che non hanno intenzione di fare quadrato ora che ce ne sarebbe un bisogno disperato, perché solo di business si interessano».


Per te, invece, è molto di più.

«Sin da quando ho aperto il Canapaio Ducale, nel 2002, ho sempre visto la mia attività come un modo per fare politica con altri mezzi, più che uno strumento per “fare i soldi”. È forse un po’ raro nel mio ambiente, ma io venivo dall’attivismo politico organizzato e dagli studi di giurisprudenza, il garantismo penale e la filosofia del diritto erano mie grandi passioni. Ero e sono, perciò, perfettamente consapevole dei rischi che corro e della natura dell’attività ce ho deciso di intraprendere.

In un certo qual modo, le attenzioni da parte delle forze dell’ordine e della magistratura me le sono anche andate a cercare: negli anni ho portato (non certo da solo) tutta una serie di iniziative che avevano un forte contenuto provocatorio, a partire dalle campagne di promozione del Canapaio fino a quelle di Easy Joint, passando per la Festa Antiproibizionista, il cui intento era evidente sin dal nome e non mi ha certo attirato simpatie. Dal 2002 a oggi ho subito 6 inchieste penali, con accuse che vanno dall’istigazione all’uso di droghe alla coltivazione della cannabis, da quella di spaccio e detenzione di stupefacenti a quella – più fantasiosa, e mia preferita – di esercizio abusivo della professione farmaceutica.

Quello che mi attende è il mio terzo processo. I primi due li ho vinti. Il più importante è quello che si è svolto tra il 2012 e il 2013, legato ai semi di marijuana. La procura di Ferrara promosse un’indagine che coinvolgeva tutti e sessantaquattro i grow shop allora presenti in Italia, sequestrano i semi che vendevamo e indagandoci tutti per istigazione alla coltivazione di sostanze stupefacenti. Per sessantuno dei miei “colleghi” le accuse caddero perché nessun GUP ritenne fosse il caso di andare a processo. Per i tre rimasti – tra cui io – ci fu il processo e una condanna in primo grado, seppur con pene minime e senza nemmeno la menzione nel casellario giudiziario, poco più di un buffetto. In appello gli altri due furono presto assolti. Ero l’ultimo a essere giudicato in appello, a Bologna. Questo concentrò molto l’attenzione su di me, perché se fossi stato assolto anche io, sarebbe stato sancito per ben sessantaquattro volte, da oltre dieci tribunali, che ciò che facevamo nei grow shop non era reato. Così fu, un enorme successo.

Questo è ciò che intendo con prosecuzione dell’attività politica con altri mezzi: in assenza di un intervento da parte del legislatore, fu la nostra azione “di sfondamento” a dimostrare che la vendita di semi di cannabis non era prodromica al reato di coltivazione, come non sussisteva l’istigazione. Il concetto stesso di istigazione era molto vago, figlio di una logica proibizionista e punitiva, ai limiti del reato d’opinione. Grazie a quelle sentenze costringemmo la magistratura a reinterpretare il reato di istigazione, circoscrivendolo e legandolo a elementi fattuali prima non richiesti. Un risultato, questo, non solo per noi».


Se sul fronte giudiziario i risultati sono arrivati, certo non a poco prezzo, su quello della politica istituzionale molto meno.

«Quando tre anni fa ho lanciato l’idea della cannabis light, il mio intento era proprio quello di ripetere quanto avvenuto con i grow shop: di fronte al vuoto legislativo e alla mancanza di intervento da parte delle istituzioni, volevo incidere sul fronte giurisprudenziale. Mi aspettavo l’attivismo della magistratura e in un certo senso la considero un partner nella via giudiziaria a un risultato che però sarebbe dovuto passare invece da un intervento del Parlamento o del Governo tramite un decreto. Easy Joint nasce in seguito al fallimento dell’intergruppo parlamentare sulla legalizzazione della cannabis, e in seguito alla forse inevitabile caduta nel nulla della raccolta firme per la legge di iniziativa popolare sullo stesso tema. La cannabis light è una risposta a questi insuccessi, per proseguire con altri mezzi ciò che per via istituzionale non si era potuto fare. Come mantenere vivo il dibattito? Questo era il disegno sin dall’inizio, per me. Quelle a cui abbiamo assistito sono solo le prime fasi di un percorso molto lungo, che dopo tre anni non aveva più l’attenzione mediatica che c’era all’inizio, anche per la banale assenza di novità concrete, e che è tornata in minima parte solo in seguito all’azione giudiziaria degli ultimi mesi.

Voglio ribadirlo, però: se ci fosse stato un reale dibattito sulla legalizzazione, in questo paese, se si fosse visto per lo meno un principio di intervento sul tema, non ci sarebbe stato bisogno della cannabis light, non avrei mai fondato Easy Joint.

Certo, ho visto una nicchia di mercato, un bisogno latente, e lì sono intervenuto con un’iniziativa imprenditoriale, ma il mio era ed è un intento politico. Seguo da sempre quanto avviene negli Stati Uniti, e prendendo esempio – mutatis mutandis – dall’esperienza di chi si è battuto per la legalizzazione in quel paese, ho capito che bisognava creare una forma di lobbismo, una massa critica di portatori di interesse, per creare un cortocircuito nel nostro sistema così ancorato al proibizionismo.

Per questo non ho voluto in alcun modo rivendicare un’esclusiva sulla cannabis light, e anzi ho di fatto incoraggiato le molte copie che sono nate del mio prodotto, della mia azienda, dei punti vendita, delle mie attività di promozione e comunicazione, persino delle etichette sui barattoli di cannabis light: mi è capitato di inserirci di proposito degli errori e vederli copiare pedissequamente dai miei “competitor”. C’è chi se la sarebbe presa, io mi sono fatto una grassa risata perché per me era una vittoria».


Questa massa critica ha attirato l’attenzione che cercavi nelle istituzioni?

«Solo in parte. Si è effettivamente venuto a creare un corpo imprenditoriale, in buona parte fatto anche di giovani, difficile da ignorare, tanto da ricevere il plauso prima dell’allora Ministra della Salute Grillo e poi del Presidente Conte, che nella conferenza stampa di fino anno del dicembre scorso ha riconosciuto la necessità di un intervento legislativo chiarificatore che dia certezze e risposte al nostro settore. Su questo fronte, missione compiuta. D’altro canto, però, non si è poi vista alcuna azione concreta né da parte del Governo né da parte della maggioranza parlamentare, se non iniziative sporadiche, di singoli, che sono atti simbolici. Dopo tre anni, io e i miei colleghi non sappiamo che farcene di qualche emendamento inevitabilmente bocciato o espunto. Sono bandierine che oltre a dare un pizzico di lustro a chi ne rivendica la paternità, non fanno altro che compattare il fronte proibizionista tanto nella politica quanto nelle procure.

Ero in contatto con i promotori dell’iniziativa parlamentare che vorrebbe emendare contemporaneamente la legge sulla canapa, inserendovi le infiorescenze, e la legge 309/1990 definendo più precisamente quello che è genericamente indicato come cannabis. La trovo un’azione positiva e che potrebbe dare risultati concreti, ponendo fine ai vasi comunicanti tra legge sulla difesa della filiera industriale della canapa e la legge sulle droghe.

Il mio messaggio ai parlamentari era semplice: “Non armiamo il fronte opposto, lavoriamo in silenzio fino a quando non ci saranno prospettive serie di successo”. Purtroppo devo riscontrare come alcuni parlamentari del gruppo dei 5 Stelle non abbiano saputo tenere la bocca chiusa e casualmente con l’uscita della notizia sono partite le azioni giudiziarie delle ultime settimane.

L’intento è evidente: fare giurisprudenza e sancire che la cannabis light è droga, prima che il Parlamento possa intervenire e renderlo impossibile. Se questo dovesse avvenire, il fronte proibizionista a livello parlamentare avrebbe gioco facile a inserirsi nelle contraddizioni già presenti nella maggioranza, con le solite accuse demagogiche: “Il Governo pensa alla droga di stato invece che preoccuparsi della crisi”, e simili.

L’emendamento è stato accantonato, mi dicono. E a questo punto io dico basta. Il dibattito, a livello istituzionale, va avanti da anni, così come le audizioni e i pareri. Il Parlamento ha tutti gli elementi per deliberare. Basta emendamenti, basta tentativi di infilare modifiche qui e là. C’è bisogno di una revisione chiara e inequivocabile della legislazione in materia di droghe, per porre fine alle ambiguità e alle interpretazioni».


Il messaggio alle nostre istituzioni è chiarissimo. Così come appare chiaro, dal tuo racconto, un certo atteggiamento da parte della magistratura e delle forze dell’ordine, fortemente repressivo. Molti sono stati gli episodi di violenza legati a una nostra piccola “war on drugs” all’italiana, episodi spesso a sfondo razziale come il tristemente celebre caso di Emmanuel Bonsu, il brutale pestaggio di un ragazzo nero proprio nella tua Parma da parte di un gruppo vigili impegnati proprio in una retata legata allo spaccio di marijuana. Il ragazzo, peraltro, non aveva nulla a che vedere con l’oggetto dell’azione di polizia, la sua unica colpa era quella di avere la pelle del colore sbagliato, di quello che viene immediatamente associato agli spacciatori. Il caso fu poi reso celebre dal video di un testimone dell’accaduto, diffusosi in maniera virale su YouTube.

Il pensiero non può che andare inevitabilmente agli Stati Uniti, che tu stesso hai citato. Senza voler fare parallelismi forzati, da sempre la demonizzazione della cannabis è associata alla discriminazione razziale, le radici del proibizionismo, per lo meno negli USA, sono indissolubilmente legate al razzismo. Prima di salutarci vorrei sapere cosa ne pensi.

«Chiunque si interessi della storia del proibizionismo sa che le radici della demonizzazione della canapa hanno uno sfondo razziale. Lo stesso insistere sul termine “marijuana” nasce dalla volontà di farla percepire come qualcosa di alieno, di diverso, che rimandasse immediatamente agli immigrati messicani, oggetto anch’essi allora come oggi di discriminazione. Il nesso tra repressione delle minoranze, repressione dei comportamenti “non conformi” e repressione delle minoranze è evidente e dimostrato da diversi studi, non ultimo quello recentemente pubblicato dall’American Civil Liberties Union, che mostra come negli Stati Uniti le minoranze vengono decimate da politiche antidroga obsolete e razziste, che prendono di mira le in particolare le persone afrodiscendenti, che vengono incarcerate fino a quattro volte di più dei bianchi e con pene decisamente più severe, vedendo le loro vite distrutte in carcere e perdendo molto spesso il diritto di voto per il resto della vita. Questo a fronte di un consumo di marijuana identico tra le varie componenti etniche.

Il dibattito sulla cannabis legale, negli Stati Uniti, e ora giustamente concentrato sulle misure che pongano fine al conflitto razziale, non solo tramite la legalizzazione o la depenalizzazione, ma anche con il rilascio (negli Stati dove la legalizzazione è avvenuta) delle persone incarcerate per reati legati alla cannabis, fino a immaginare forme di risarcimento diretto o indiretto, come quote di licenze per il commercio di cannabis riservate proprio alle persone ingiustamente colpite da un utilizzo razzista del contrasto alla droga.

Per concludere e per riavvicinarci al nostro paese – che pure non è affatto esente, come ricordato, da problemi simili – ciò che l’esperienza statu

nitense mostra, e che vale assolutamente anche per l’Italia, è che proibizionismo e repressione non hanno avuto nei passati decenni alcun effetto nei confronti del crimine organizzato, il cui enorme giro di affari non ha subito alcun danno, mentre si è concentrato esclusivamente sulla punizione dei comportamenti e degli stili di vita delle singole persone. Nove su dieci arresti per droga, negli USA, sono per possesso e non per spaccio.

Anche in Italia la situazione è grave. Il libro bianco sulle droghe 2020 mostra come un terzo dei detenuti del nostro paese sono in carcere per reati legati alla droga, ma solo una minima parte, meno del dieci percento, sono condannati per legami al crimine organizzato. È inoltre evidente il forte accanimento nei confronti del consumo di droga e in particolare di cannabis. Se solo in un caso su dieci si arriva a condanna, nei processi relativi ai reati contro la persona e il patrimonio, nel caso dei processi per reati legati alla droga le condanne arrivano per un accusato su due. Più di tre quarti di questi sono legati alla canapa.

Solo un intervento legislativo può fermare questa follia. Solo un atto del Parlamento o del Governo può fermare l’azione repressiva da parte di procure e forze dell’ordine».


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